La vita è bella (1997)

Quando a Dumas père era mossa l’accusa di violentare la Storia, il sagace romanziere si scagionava obiettando che dai suoi atti di violenza nascevano dei bei bambini. Un’osservazione simile si potrebbe rivolgere ai puristi e a quanti storcono il naso di fronte a La vita è bella. Il film di Benigni infatti non è una pedante ricostruzione manualistica, ma una storia nella Storia, una favola moderna costruita sullo sfondo di una delle più drammatiche pagine che l’umanità ricordi.
Guido, un giovane ebreo amante della vita e della poesia, si reca ad Arezzo con l’amico Ferruccio in cerca di lavoro. Si fa assumere come cameriere dallo zio Eliseo, che gestisce il Grand Hotel, e s’innamora di Dora, un’insegnante promessa sposa all’antipatico fascista Rodolfo. Con l’esuberanza e l’allegria del suo carattere, riesce a vincere le reticenze della maestrina, e a sposarla. Sei anni dopo, probabilmente denunciato dalla suocera che non ha mai digerito il matrimonio, Guido è deportato in un campo di concentramento con lo zio Eliseo e col suo figlioletto, il piccolo Giosuè, mentre Dora, pur non essendo ebrea, decide di seguirli di sua iniziativa.
È l’inizio della tragica avventura di un padre che, per proteggere il figlio dalla realtà, maschera l’intero dramma della prigionia dietro la ridente facciata di un appassionante gioco a punti; di un marito che, vincendo la lontananza fisica, cerca di restare vicino all’amata moglie; di un uomo, che è disposto veramente a tutto, anche al personale sacrificio, pur di difendere ciò che ha di più caro. Sino alla prova conclusiva, che nella fantasia di Giosuè assume i connotati di una lunga partita a nascondino, prima dell’assegnazione dell’ambito premio finale.
Da un punto di vista strettamente razionale, La vita è bella è un film ricco di punti deboli: anacronismi a volontà (l’espediente del gioco a punti, per dirne uno, somiglia molto alla più recente logica del videogame), inverosimiglianze che sfociano nell’assurdo, situazioni melense e semplicistiche che mettono a dura prova la credibilità del racconto. Per tacere il sotteso buonismo e la retorica che trapela in alcune sequenze. Ma l’insidia di uno sciropposo melodramma è superata da un’insolita carica emotiva. L’intera storia è attraversata dalla forza di una poesia, sorretta dall’incantevole commento musicale di Nicola Piovani, che trascende le incoerenze dello script, spingendo lo spettatore a guardare ben oltre le apparenze, e persino oltre la spesso sopravvalutata sfera del pensiero.
È un poema sulla vita, sull’amore, sulla famiglia, e profonda in questo senso è l’intesa umana, oltre che professionale, tra Benigni e il piccolo Cantarini, non dimenticando quella altrettanto notevole tra il protagonista e la Braschi, che portano sul set l’autenticità di un rapporto collaudato dalla vita stessa. Deciso è anche il tratteggio di alcune figure di contorno, come il già ricordato zio Eliseo, interpretato da un convincente Giustino Durano, e il curioso dottor Lessing, deus ex machina ridicolo e tragico, che da apparente angelo custode di Guido si rivela in tutta la sua impotenza, vittima non tanto del sistema, quanto di un cieco solipsismo che sospinge la vicenda nel suo risvolto più spiccatamente drammatico. Ma la grande rivelazione è proprio lui, Benigni, attore, regista, e uomo. Il film segna un solido spartiacque e insieme un momento di felice connubio tra il “comico puro” della prima produzione e “l’artista impegnato” della successiva, non solo sul piano strettamente cinematografico, ma su quello più generale di uomo di spettacolo.

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